A dieci anni dall’entrata in vigore della norma penale, e alla luce del sconvolgimento economico–monetario realizzato nel sistema degli scambi finanziari e dei traffici commerciali dalle criptovalute, si è tentata la ricerca di una sintesi, in punto di congruità, della scelta primigenia di politica criminale, anche alla luce dei risultati effettivi conseguiti — “caccia del provento illecito” — in uno alla analisi contenutistica e al rispetto della legalità penale, in primis determinatezza e tassatività. La scelta ablativa del cd. privilegio dell’autoricilaggio, l’indeterminato catalogo dei reati presupposto — cui anche le contravvenzioni accedono —, l’inopinata preferenza legislativa di lasciare impunite eclatanti forme di riutilizzazione “personale” dei proventi illeciti rispetto a re–immissioni nel circuito economico generale — realizzative di evidenti benefici collettivi e financo solidaristico–altruistici — la “leggerezza” con cui in via interpretativa la giurisprudenza ritiene “concretamente ostacolata” la provenienza del provento illecito, in uno alla quasi simbiotica derivazione e associazione “uso della criptovaluta–autoricilaggio”, rischiano di trasformare la disposizione di cui all’art. 648–ter.1 c.p. in una “norma onnivora” capace di fagocitare ogni condotta susseguente al reato presupposto generatore di profitto per lo stesso autore. Tanto basta per aumentare il livello di guardia e allerta per la patente violazione dei principi “generalissimi” del nostro sistema penale cui la norma de qua si presta a perpetrare, per non parlare delle ipotesi in cui l’oggetto materiale sia rappresentato dalla “moneta delinquente”, alias criptocurrency.