L’epifania di Maria Grazia Calandrone, negli ultimi tre anni, è stata folgorante. Di quelle apparizioni che stupiscono ma che, ciò malgrado, una volta manifeste appaiono necessarie da sempre. La sua lingua poetica è quella della grande analogia, degli accostamenti lessicali e visivi (visionari, cioè) stupefacenti, eppure appunto mai gratuiti. Ma c’è in lei – rispetto a questa nobile tradizione – una ruvida concretezza tutta contemporanea, un aggancio a terra tattile e materico che si esprime soprattutto nell’espansione infrenabile di un verso lungo o lunghissimo, dunque massimamente inclusivo, in certe spavalde impuntature lessicali e, più in generale, con un’espressione della sofferenza assai tangibile ed evidente. Questo lamento non è però mai chiuso nel guscio umidiccio dell’io lirico tradizionale ma, proprio grazie allo strumento analogico e visionario, si estende a ondate progressive sino a chiamare in causa una condizione universale: una tramatura profonda dell’umano.