Fouché è un simbolo. Non tanto del tradimento, quanto del potere al servizio di sé stesso. Certo, l’ex seminarista, l’ex mitragliere di Lione, l’ex giacobino poi girondino, l’ex ministro di polizia, l’ex duca d’Otranto ha cambiato molte casacche, ha servito molti padroni, ma ha obbedito solo a sé stesso, ha piegato le circostanze solo alla propria ambizione. L’autrice conosce bene le vicende di quel paese e sa cogliere in ogni passaggio l’intreccio tra la grande storia e la cronaca delle vite dei singoli. Senza quella Francia non ci sarebbe stato quel Fouché. Proprio la mutevolezza degli eventi consentì la sopravvivenza a coloro che seppero adattarsi, via via adeguando i propri comportamenti, alternando il potere all’oblìo, quando il potere sembrava in crisi o quando l’esercizio del potere poteva portare alla catastrofe. Certo, in una Francia stabile e pacificata, mentre Talleyrand avrebbe potuto continuare a fare il ministro degli Esteri, un uomo come Fouché non sarebbe sfuggito alla condanna. Ma in questo tipo di Francia Fouché sarebbe stato un altro uomo. Il ministro di polizia fu un grande inquisitore? In una immaginaria galleria dei grandi inquisitori, l’autrice lo colloca accanto all’ispettore Javet del romanzo “I Miserabili” e al disincantato giudice dell'opera “Il Processo” di Kafka e ne fa, correttamente, un predecessore di quello Stato di polizia che in Italia e Germania vide la luce nella prima metà del secolo scorso. Fouché fu certamente un uomo di potere fu un servitore, nello spirito e nei comportamenti. Uomo che era stato in alcuni momenti il più potente di Francia e che aveva avuto nelle sue mani il destino di migliaia di francesi, morirà solo e dimenticato a Trieste.