Dopo "Cinquanta chili d'oro" (2014, relativo al capitolo italiano del processo), "Un fiore mi chiama" (2014, relativo all’infanzia, all’adolescenza e alla prima gioventù, secondo i racconti dei testimoni), "Posso stare in piedi" (2015, dedicato alle 22 deposizioni rese da altrettante donne sopravvissute, provenienti da tutti i territori investiti dall’onda della Shoah), l’opera si conclude con questo quarto volume interamente dedicato al lungo interrogatorio e controinterrogatorio dell’imputato Eichmann davanti alla Corte distrettuale di Gerusalemme. A parlare, qui, è lo "spedizioniere della morte", come a un certo punto lo definisce il Procuratore generale Hausner. E la sua è una difesa testarda e monocorde, a tratti irritante, sorda a ogni sollecitazione, finanche snervante. Da 1961, l'anno del processo, il dibattito sul processo Eichmann è essenzialmente stato un dibattito su Hanna Arendt e sulla "banalità del male", che in sostanza è prevalso nei confronti dell’interesse del processo in sé. Eichmann era solo un "nemico del genere umano", un cinico "spedizioniere della morte", come fu definito? O non rappresentava, come piuttosto pensava la filosofa tedesca, l’assenza di una dimensione interiore etica della coscienza? Eichmann, come prodotto dell'ideologia totalitaria, era davvero privo di qualsiasi specifico tipo di pensiero? Il volume, attraverso le parole dell'imputato stesso, prova ha dare una risposta a queste domande.