Un libro, “Per voce sola”, di testi teatrali, quattro monologhi, con cui Maria Grazia Calandrone, affilando la sua poetica, sembra consegnare ad alcune voci femminili quell’ambiguità della memoria che si dà per frammenti, ritrazioni e dialoghi coi vuoti.
Se parlare è decidere la propria lingua e farla/farsi esistere, abbiamo in questi testi, nello stesso tempo, della parola e di più quando questa ci appare come ossessione, un silenzio che nasce dalla materia dei corpi offesi e riempie la scena. La scena è occupata da figure il cui darsi travalica il senso di differenza, diversità e identità, perché con uno spostamento radicale, fanno del palcoscenico il teatro della malattia.
La scrittrice Flannery O’Connor parlò della malattia come grazia e chissà se intendeva uno spazio tra il mondo e l’interiorità, un luogo in cui la parola non agisce che in minima parte. Leggendo Maria Grazia Calandrone, in queste pagine abitate dalla fragile presenza dell’io dei personaggi chiave, si ha la netta percezione che la loro malattia sia piena di vita, ma di una vita inafferrabile. La morte non occupa il loro pensiero, non direttamente, né il loro stare in una solitudine fatta di nomi ripetuti, vocio di morti o insorgenze la cui realtà è dubbia. Percepiamo un moto circoscritto di corpi e voci che afferrano quel che in loro si agita come in un limbo dove il presente è il passato o è un tempo che non conosciamo.